Dove vanno i demoni?
Parigi, Venezia…

 “In una notte senza luna, sono quasi caduto, probabilmente nella tua tomba aperta. Sì, era proprio la tua tomba, spalancata, o Signore, poiché alcune faville così dolorose non avrebbero potuto sprizzare dai miei occhi di uomo nell’oscurità.”
Blaise Cendrars, la leggenda di Novgorod

Sono multipli, proteiformi, fuggenti, inafferrabili e appaiono solo agli sguardi allucinati dei guardiani dell’oscuro o dei pastori delle alte luci, che sono i poeti, gli sciamani, i santi, i taumaturgi e i posseduti. Vengono chiamati demoni, qui spiriti, dei o diavoli in tutte le lingue e sotto le grafie più strane, più ermetiche. Capita anche che per timore non li si nomini… Presenze sussurranti nel regno dell’angoscia o apparizioni radiose dal soffio salutare, popolano la nostra intelligenza di rettili da quando il mondo è mondo, nel cuore delle prime vibrazioni della vita e della morte. Sono l’antitesi della ragione, l’evidenza indicibile, il sapere sotterrato per sempre, la ricerca cieca, l’irradiante assoluto di un Nulla che sarebbe il Tutto.

Quel buon vecchio Pitagora, lui stesso identificato dai suoi pari come un “demone sceso sulla terra… e/o … un demone diventato giovane uomo” li vedeva dappertutto, come particelle dell’etere: “L’aria, nella sua totalità, è riempita di anime  e queste anime sono chiamate demoni e eroi.”

Ecco, è quasi passato un anno da quando Marco Benedetti ci presentava a Parigi i suoi “7 Daemons”. Ossia sette entità mezze animali, mezze divinità… esseri fantasmagorici e favolosi non ancora repertoriati nel catalogo ufficiale delle stranezze e bizzarrie dei mondi paralleli o sotterranei. Rivelati, eretti e portati alla luce, questi (i 7 Daemons) lo erano, allora, grazie all’artista che aveva saputo dare libero corso alle più segrete erranze della propria immaginazione, sedotto dalle forme inattese che la terra impastata, arrotolata, modellata prendeva, dai palpiti e dai sussulti della vita nascente che ne fuoriuscivano, con il desiderio di tradurre su tela o sulla carta lo sfolgorare delle loro apparizioni. Come negli appunti fantasmatici di quei viaggiatori dei tempi antichi che avevano esplorato  paesi immaginari o sconosciuti e nei quali il lettore poteva commuoversi della bellezza sconcertante dello strano e contemporaneamente rabbrividire per la vita, di atrocità attribuite ai selvaggi di quelle terras incognitas così distanti, così lo spettatore parigino aveva potuto frequentare le figure di quel “Panteon Pandemonio”, singolarmente originale, che l’artista aveva messo in scena e che oggi giungono a Venezia, accompagnate da due nuovi soggetti presentati, come a Parigi, nei loro abiti dipinti con ocra, rosso e nero, dalla patina sobria e sensuale, idoli atemporali come risorti da un eterno oblio. Esse hanno la bellezza radiosa delle opere create dagli umani, dalla notte dei tempi, al fine di esprimere la propria meraviglia, il proprio credo in “qualcosa” che li sovrasta e che esse temono e/o venerano. Pensiamo alla rinfusa a quelle Veneri Callipigie della preistoria (Lespugue, Willendorf, Brassempouy, Yuliyevich, ecc.), alla statuetta della Terra Madre di Coatlicue in Messico, alla Chimera di Arezzo, al Minotauro di Myron o ancora alla sontuosa Lupa capitolina di Roma. Tutti miti, concetti leggendari, mistici, esoterici o semplicemente onirici ma questi miti abitano in noi, ci accompagnano silenziosamente, plasmando le nostre società e le nostre civiltà. Possiamo ignorarli, possiamo farne a meno?

La bellezza dell’arte di Marco Benedetti è di avere saputo animare con un soffio credibile quello stupefacente bestiario mitologico che ci fa interrogare, ci affascina e ci commuove per il forte potenziale interrogativo che la connota. Eppure, qui tutto sarebbe soltanto favola…

Tanto più che l’artista ci propone un secondo approccio dei suoi Daemons grazie a grandi tele dipinte, presunte immagini della loro identità, quadri pieni, quasi cinematografici, di quegli esseri-idoli nella loro più sconcertante natura, rappresentazioni molto più perturbanti di semplici icone immobili votate alla devozione, in quanto vive e completamente animate, quand’anche restassero immobili. Al di là della semplice evocazione del mito Benedetti ci fa immergere, attraverso le sue inquadrature dalle false prospettive e l’audacia delle sue composizioni talvolta al limite dell’instabile, negli universi immaginosi delle culture popolari: fumetti, manga e altre immagini stereotipate o anche pubblicitarie (come le  reclame di una volta) che accompagnano i riferimenti rivendicati  o meno da certi maestri antichi: Bosch, Uccello, Giotto, Memling, Bruegel il Vecchio…

Quelle tele, di un  pittorico esplosivo, dalle violente illuminazioni, dai colori incandescenti, talvolta febbrili nelle ombre e che si dispiegano in lungo e in largo in movimenti fluidi dovuti alla gestualità sapiente del pittore, alla sua sottile padronanza del tocco e del tratto – fanno quindi fronte o piuttosto da specchio alle statuette, che si direbbero destinate a qualche mistero mantico, come se si trattasse dell’arte cerimoniale di un ipotetico altrove – questo connubio “statuette-pittura”  non diventerebbe forse oggetto sacramentale e liturgico?

Mentre a Parigi la “messa” fu data dai primi sette Daemons (Sonderling, Plato, La Fuga, Cinopotamo, Benvenuto, Humo e Cervuomo), oggi Venezia accoglie e riceve al Palazzo Giustinan Lolin, due nuove creature che furono come le precedenti, poeticamente battezzate con nomi che facevano riferimento a divinità dimenticate sotto la polvere di vecchi grimori.

Per il primo non si potrebbe dire se ha ereditato il carattere selvatico del gigante Basajaun, quelle sorta di yeti leggendario delle foreste basche d’Iraty o è parente del terrificante Wendingo dei popoli amerindiani algonchini, ossia un essere dotato di una potenza fenomenale, fisica e spirituale, maledetto per sempre per avere mangiato la carne umana, demone cannibale, foriero dell’inverno, della carestia e dello sterminio, rappresentato di solito con un’enorme testa agghindata con corna di cervi, le mani munite di grinfie smisurate e gocciolanti di sangue… A meno che non si tratti di una reinterpretazione dell’enigmatico Golem, figura mitica della tradizione ebraica. Un uomo di argilla, informe e rimasto incompiuto dal suo creatore, eroe iniziatico e anamorfico nel romanzo eponimo di Gustav Meyrink, che assilla la vecchia città ebraica di Praga, fantasma incontrollabile, devastatore, vendicatore e contemporaneamente protettore.

“È il terrore che genera sé stesso, l’orrore paralizzante del Non-Essere inafferrabile che non ha forma e che rode le frontiere del nostro pensiero.”

Ma non ci sarebbe forse tanto Meraviglioso nello Spaventoso e inversamente? Probabilmente ecco una chiave, una pista di comprensione dell’opera dell’artista, perché quando si crede di discernere una verità questa ci sfugge e si trasforma in tutt’altra cosa. Così il nostro Basajaun-Wendingo-Golem si addobberà improvvisamente con gli attributi del grande dio “cornuto” dei celti, l’intrepido Cernunnos, talvolta giovane uomo, talvolta  uomo vecchio, simbolo del rinnovamento  e dei cicli della natura.

E poi ecco arrivare il suo compagno che va alla deriva rasente l’acqua, in un’imbarcazione che sembra cristallizzata nelle nebbie. Di primo acchito siamo in presenza della figura simbolica del traghettatore. In effetti non si può non pensare a Caronte, il nocchiero degli inferi che sulla sua barca fa attraversare lo Stige (o l’Acheronte) alle anime affinché possano penetrare nel regno dei morti. Ma scopriamo un Caronte che avrebbe incrociato gli orologi molli di Dalì… e si sarebbe lui stesso perso negli stagni dell’Inferno perché il tempo che “mai si accende e mai si spegne” è il padrone assoluto di quelle acque lattiginose e torbide dove tutto alla fine si scioglie e si diluisce. Strano malessere che ci stringe quando incrociamo quel viso cieco di pseudo-cervido le cui membra gocciolano e che sembra errare in eterno sulla sua barca luminescente di silenzio.

D’altro canto, se ci riferiamo a Herman Hesse e a Vasudeva, il personaggio del passatore in Siddharta, egli ne è l’iniziatore, la guida spirituale… sul fiume che ride perché:

“Il contrario di ogni verità è tanto vero quanto la verità stessa”

Qual è questo viaggio misterioso nel quale il traghettatore ci conduce? In quale Odissea egli imbarca i nostri sogni e le nostre angosce? È forse la guida della truppa dei Daemons? E dove vanno tutti?

Nel segreto del suo atelier Marco Benedetti ci confessava che si augurava di piazzarli, come una scorta particolare, nei passi dei cavalli della basilica di San Marco, la favolosa quadriga portata via dai veneziani dall’ippodromo  di Costantinopoli (Istanbul sotto l’era di Costantino), poi rapita nel 1797 da Napoleone,  che la fece installare a Parigi quale testimonianza del proprio trionfo… e che infine fu restituita alla città dei Dogi.

Forse il viaggio dei Daemons non è del tutto concluso. Dopo Parigi e Venezia, è possibile che assisteremo ad una sorta di pellegrinaggio dai disegni impenetrabili, come un ritorno alla fonte, alle origini?

L’epopea artistica alla quale ci invita Marco Benedetti probabilmente è solo all’inizio. Gli auguriamo un bel viaggio come quello del felice Ulisse di  Du Bellay “e quell’altro che conquistò il Vello”, lasciando a Dante le parole di una fine… assolutamente provvisoria:

“Tra questa cruda e tristissima copia corrëan
genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio
o elitropia”

Inferno,  ventiquattresimo canto

Dom Corrieras – 2023
(traduzione di René Corona)

 

7 Daimon o la mitica farsa.
Dom Corrieras

“Car le feu qui me brûle est celui qui m’éclaire”
La Boétie

All’inizio ci fu il cielo.
Non la notte, non il giorno, no. Soltanto il cielo.
Poi un brivido. E il brivido divenne sifone.

Un tunnel che aspira, che volteggia, dove risuonarono le prime grida delle creature. Erano nel numero di sette. Come i sette cuori e i sette piedi di Daimon I che, seduto, pensieroso, sul suo Trono evacuatorio, le contemplava con il suo sguardo da orfanello. A lungo le aveva impastate, triturate, accarezzate, modellate, come il fanciullo innocente che gioca con l’argilla fresca del ruscello. Un’argilla grassa e vischiosa proveniente dai suoi stessi escrementi ai quali aveva dato forma e infuso la vita. Una scoperta inaudita. Era la scintilla di un gesto, il palpitare di un occhio, il destreggiarsi di un deretano, carpiti con estasi!
Allora, egli riunì le sette creature così erette e a ciascuna offrì un piede e un cuore. E le sette creature divennero immediatamente i suoi idoli. Perché lui non era più nulla, Soltanto il Partoriente innocente.
I sette cuori dei sette idoli all’unisono si misero a battere la misura del tempo. Poi, in una ossessiva litania, gli ripeterono continuamente: Guardaci! Guardaci! Noi siamo il tuo Fuoco e la tua Luce. Cantiamo e danziamo il genio dei tuoi escrementi ovunque, l’accecante splendore della tua innocenza!
Poi ci furono il tuono e la pioggia. Una pioggia rosa, un vino chiaretto che scorreva dappertutto. Finalmente smise di piovere e, sui vetri appannati del cielo, Daimon I con un dito agile e sicuro, disegnò le sagome delle sue divinità che battezzò “i sette daimon”. Sette cuori palpitanti e frementi in altrettanti trance, grida, canti e slanci capricciosi.
Così fu scritta la leggenda.

Era cosciente, era innocente, l’artista che plasmava l’argilla e quello che dipinse uno ad uno i ritratti dei suoi stessi mostri che lo abitavano, sorti tra le sue mani callose, come altrettante apparizioni rettili e che vagivano nell’attesa di un ultimo, fastoso, Septimontium, celebrazione pagana della loro confraternita, con il suo lotto di orge, agapi e libazioni tonitruanti? Nessuno lo sa, nemmeno lui, Marco Benedetti, il genitore di fortuna, l’eletto, il testimone affascinato e insieme – attraverso chissà quale miracolo – il grande processore in sordina di questa mitica farsa. Perché all’occorrenza, l’atto di creazione consta di quei due stati in perpetuo e fragile equilibrio della materia primitiva o più esattamente della matrice vitale, ossia innocenza e coscienza.
L’innocenza, quel paradiso perduto come lo evoca Nietzsche (Considerazioni inattuali), è il punto di partenza, il chilometro zero per Marco Benedetti, quando si mette in movimento sui sentieri della peregrinazione artistica. È la condizione sine qua non per l’accensione del rito creativo. Un sogno ad occhi aperti piacevole, contemplativo, per non dire estatico, di fronte alle trasformazioni improvvisate della materia, dalle facete contorsioni delle forme e dei volumi che il tandem febbrile “mani-cervello” elabora e scopre man mano, senza che si sappia chi è realmente il direttore dei lavori, l’uomo o la materia? A meno che non si tratti, in fin dei conti, di un terzo incomodo, più ingegnoso e sornione, quello che talvolta viene chiamato il “fuoco interiore”, nella sua accezione tanto carnale quanto spirituale. Questo focolaio d’immondizie, fatto di frantumi di memorie precedenti alla nostra umanità, di ferite eternamente in suppurazione, di estasi pietrificate, quel magma informe di verità nascoste e di affascinanti ignoranze, quel vulcano che si consuma in noi dalla nascita fino al declino.
Così furono eretti gli idoli, i sette daimon che ci accolgono.

Da allora, il pittore ha preso possesso del proprio universo. In un bell’atelier a Varallo Pombia, vicino alle rive del Ticino e del Lago Maggiore, dove Marco Benedetti foggia la sua opera solitaria, in compagnia di una stufa calorosa che fa le fusa, di un patio circondato da vecchie pietre pensierose, di un cagnolino giocoso e di Lucia, raggiante, indefettibile compagna che veglia su di lui, lo protegge, e lo capisce.
Dunque, eccoci nell’atelier dove stanno tranquillamente le statuette… sembrerebbero reduci da un mondo antico sconosciuto o anche le anime luciferine dei Sette nani di Biancaneve, in un nuovo incubo dei fratelli Grimm. Non sono forse anche il pendant ultramoderno di quei “Kaiju” giapponesi che incantano l’immaginazione dei lettori di manga?
Siamo grati a Cesare Pavese che, nel suo diario intimo Il mestiere di vivere, in data del 24 marzo 1942, fa risorgere per noi alcune riflessioni del rimpianto (ma anche un po’ dimenticato) filosofo Alain, tra cui questa, che ci dice più o meno l’essenziale:
“L’artista… regola le proprie immagini secondo ciò che fa, intendo secondo l’oggetto che nasce sotto le sue dita…” E un po’ più sotto, sempre citando Alain: “L’idea gli (all’artista) viene dopo, come allo spettatore, ed egli è anche spettatore della propria opera che sta nascendo.” (Sistema delle Belle-Arti).
Così i ritratti gran formato degli idoli prenderanno possesso delle tele, dopo vari schizzi, bozzetti, studi preparatori su ogni supporto possibile. E da idoli i nostri daimon diventeranno icone! Perché l’artista primitivo (innocente) che aveva saputo generare, nel bagliore e nel fascino delle sue “trovate”, quello strano bestiario, ha lasciato il posto all’artista pienamente cosciente. Il pittore che padroneggia la sua arte fino al minimo granello, fino alla più sottile vibrazione di pigmento.
Innanzitutto, la composizione, il tratto e poi l’immagine, folgorante, irradiante. Un’illuminazione silenziosa. E tutto sembrerebbe disinvolto, addirittura di una calma neo-olimpica. Ma è solo apparenza. Perché queste visioni, appena catturano la nostra attenzione, ci ossessionano come le tentazioni di Sant’Antonio. Siamo ipnotizzati dal potere sordo ed enigmatico di queste entità giunte da un mondo parallelo. E lì dove Marco Benedetti ci combina le burle più birbone, è semplicemente perché non si decide a dipingere i ritratti intimi (o supposti tali) dei suoi esseri fantasmagorici. No! Spinge il vizio nel rappresentarcene soltanto le statuette, cioè l’immagine degli idoli installati sulle loro basi di legno, ossia l’immagine dell’immagine… dell’immagine! Dandoci così da riflettere sul potere reale delle icone. Chiaramente, come si diceva una volta nelle campagne, fa “l’asino per avere del fieno”. Il sarcasmo non è distante, se non l’ironia e la pantomima grottesca. Su, avanti, venite qui da noi Pulcinella e compagni!
A tale proposito non possiamo fare a meno di rileggere Baudelaire che, commentando i quadri di George Catlin, il pittore dei pellirossa, diceva:
“Ricordiamo che Catlin rischiò di essere coinvolto in una lite molto pericolosa tra i capi dei selvaggi, mentre alcuni di loro prendevano in giro un altro – a cui il pittore aveva dipinto il ritratto di profilo – per essersi fatto rubare la metà del volto. Qualche volta la scimmia, sorpresa da una magica pittura dal vivo, gira dietro l’immagine per scoprirne il rovescio.”
Si tratta proprio di questo. Del rovescio della medaglia. Della faccia nascosta dell’angelo e del demone. Di quei mormorii dell’anima, di quella magica vocina che dentro di noi, come il famoso Daimon di Socrate, ci parla dettandoci il nostro agire e illuminandoci sul cammino della vita.
Tutto il bel mestiere dell’artista viene allora utilizzato per dare la stoccata e fenderci l’anima, aprirci lo sguardo in due o in mille. Il tocco di blu può anche farsi leggero come lanugine fluttuante nell’azzurro del cielo, ma i cieli sono di una profondità insostenibile, più verdi, più gialli, arancioni, tanto torbidi e resinosi quanto lo sperma del Destino e le luci si liquefanno, si rapprendono, implacabili nel loro terribile avvampare. Anche le prospettive sono ingannevoli quanto la risata del Maligno, i rossi ardono, si dimenano, i neri trionfano, muti, in una miriade di tinte “filosofali” dove vanno ad annidarsi riflessi di angoscia. I bianchi appostati si pigiano per meglio incendiarci la mente. Ci manca lo spazio. E pensare che è così immenso!

Da decenni Marco Benedetti visita la pittura attraverso la propria storia, saltando di ramo in ramo sull’albero genealogico dell’Arte, da Lascaux fino a David Hockney. Ci ricordiamo della sua formidabile mostra “Antologica”, a Milano nel 2019, dove egli presentava una vista d’insieme e molto ecclettica della propria opera. Così, sul filo degli anni, si è avventurato con una disinvoltura sconcertante in tutti i meandri, sussulti, mode, strade battute, correnti e scuole. Sempre con curiosità ma senza perdere mai la propria identità, la propria natura profonda. Ci offre oggi un’opera matura, possente e assolutamente unica. Colui che Jean Blanchaert qualificava, all’epoca, come pittore “agro-poeta”, facendosi l’umile erede dei numi tutelari che egli venera, come (alla rinfusa e in modo non esaustivo) Tiepolo padre e figlio, Ensor, Velasquez, Goya, Bacon passando forse da Agnolo Bronzino, Georges de La Tour, Giorgio De Chirico e tanti altri, lui, Marco Benedetti, il pastore-trovatore delle rive del Ticino, il pittore-scultore, ha saputo tracciare tranquillamente la propria strada con una freschezza, un’eleganza, una determinazione e un’aura di fantasia divina che supera la meraviglia.
E quindi Marco Benedetti artista del suo tempo? Senza alcun dubbio perché il suo tempo si misura in anni luce.

Il daimon è un processo di esecuzione “in background” dei sistemi informatici, che parte automaticamente con l’avviamento della macchina.

 

7 Dæmons ou la mythique farce.
Dom Corrieras

 “Car le feu qui me brûle est celui qui m’éclaire”
La Boétie

D’abord, il y eut le ciel.
Pas la nuit, pas le jour, non. Seul le ciel.
Puis un frisson. Et le frisson se fit siphon.

Un tunnel aspirant, tournoyant, où résonnèrent les premiers cris des créatures. Elles étaient sept. Comme les sept cœurs et les sept pieds de Dæmon Ier qui, assis, pensif sur son trône d’aisance, les contemplait de son œil orphelin. Il les avait longuement malaxées, triturées, caressées, modelées, tel l’enfant innocent qui joue avec la glaise fraîche du ruisseau. Une argile grasse et visqueuse issue de ses propres excréments, auxquels il avait donné forme et insufflé la vie. Une découverte inouïe. C’était l’étincelle d’un geste, le palpitement d’un œil, le louvoiement d’une croupe, captés avec ravissement !

Alors, il réunit les sept créatures ainsi dressées et à chacune, il offrit un pied et un cœur. Et les sept créatures devinrent ses idoles sur-le-champ. Car lui n’était plus rien. Rien d’autre que l’Enfanteur innocent.

Les sept cœurs des sept idoles se mirent à battre la mesure du temps à l’unisson. Puis en une obsédante litanie, elles lui rabâchèrent : Regarde-nous ! Regarde-nous ! Nous sommes ton Feu et ta Lumière. Nous chantons et dansons partout le génie de tes fientes, l’aveuglant éclat de ton innocence !

Puis il y eut le tonnerre et la pluie. Une pluie rose de vin clairet qui partout ruisselait. Enfin la pluie cessa et, sur la buée des vitres du ciel, Dæmon Ier dessina d’un doigt souple et sûr les silhouettes de ses déités qu’il baptisa “les sept dæmons”. Sept cœurs palpitants et bouillonnants en autant de transes, de cris, de chants et d’élans fantasques. Ainsi s’écrivit la légende.

Était-il conscient, était-il innocent l’artiste qui pétrissait la terre argileuse et celui qui peignit un à un les portraits de ses monstres qui l’habitaient, surgis d’entre ses mains calleuses, comme autant d’apparitions reptiliennes et qui vagissaient dans l’attente d’un ultime, d’un fastueux Septimontium, célébration païenne de leur confraternité, avec son lot d’orgies, d’agapes et de libations tonitruantes ? Nul ne le sait, pas même lui, Marco Benedetti, le géniteur de fortune, l’appelé, le témoin fasciné et tout à la fois — et par quel miracle — le grand ordinateur en sourdine* de cette mythique farce. Car l’acte de création, en l’occurence, relève des ces deux états en perpétuel et fragile équilibre de la matière originelle ou plus exactement de la matrice vitale, soit : innocence et conscience.

L’innocence, ce paradis perdu tel que l’évoque Nietzsche (Considérations inactuelles), c’est le point de départ, le kilomètre zéro pour Marco Benedetti lorsqu’il se met en mouvement sur les chemins de pérégrination artistique. C’est la condition sine qua non pour l’allumage du rite créatif. Un rêve éveillé jouissif, contemplatif, voire extatique face aux transformations impromptues de la matière, aux contorsions facétieuses des formes et des volumes que le tandem fébrile “mains-cerveau” élabore et découvre au fur et à mesure, sans que l’on sache qui est réellement le maître d’œuvre, l’homme ou la matière ? À moins que ce ne soit en fin de compte un troisième larron, plus ingénieux et sournois, celui que l’on  appelle parfois le “feu intérieur”, dans son acceptation tant charnelle que spirituelle. Ce brasier d’immondices fait de bris de mémoires antérieures à notre humanité, de blessures éternellement suppurantes, d’extases pétrifées, ce magma informe de vérités enfouies et de fascinantes ignorances, ce volcan qui se consume en nous de la naissance jusqu’au déclin.

Ainsi furent érigées les idoles, les sept dæmons qui nous accueillent.

Dès lors, le peintre a pris possession de son univers. Un bel atelier à Varallo Pombia, près des berges du Tessin et du lac Majeur ou Marco Benedetti façonne son œuvre solitaire, dans la chaleureuse compagnie d’un poêle qui ronronne, d’un  patio enceint de vieilles pierres pensives, d’un petit chien folâtre et d’une Lucia rayonnante, l’indéfectible compagne qui veille sur lui, le protège et le comprend.

Nous voici donc dans l’atelier où se tiennent sagement les statuettes… on les croirait revenues d’un monde antique ignoré ou bien encore les âmes lucifériennes des Sept Nains de Blanche-Neige, dans un nouveau cauchemar des frères Grimm. Ne sont-elles pas aussi le pendant ultra-moderne de ces “Kaïju” japonais qui enchantent l’imagination des lecteurs de mangas ?

Rendons grâce à Cesare Pavese qui, dans son journal intime Le Métier de vivre, en date du 24 mars 1942, fait ressurgir pour nous quelques réfexions du regretté (et quelque peu oublié) philosophe Alain, dont celle-ci, qui nous dit peu ou prou, l’essentiel :

« L’artiste… règle ses images d’après ce qu’il fait, j’entends d’après l’objet qui nait sous ses doigts…» Et plus loin, celui-ci d’ajouter : « L’idée lui (à l’artiste) vient ensuite, comme au spectateur, et il est spectateur aussi de son œuvre en train de naître ». (Système des Beaux-Arts)

Ainsi les portraits grand format des idoles prendront possession des toiles, après moult croquis, esquisses, études préparatoires sur tous les supports possibles. Et d’idoles, nos dæmons se feront icônes ! Car l’artiste primitif (innocent) qui avait su engendrer, dans l’éblouissement et la fascination de ses “trouvailles” cet étrange bestiaire, a fait place à l’artiste pleinement conscient. Le peintre maîtrisant son art jusqu’au moindre grain, jusqu’à la plus subtile vibration de pigment.

D’abord, la composition, le trait et puis l’image, fulgurante, irradiante. Une illumination silencieuse. Et tout semblerait presque désinvolte, voire d’un calme néo-olympien. Ce n’est qu’apparence. Car ces visions, à peine s’y accroche-t-on, qu’elles nous hantent comme les tentations de Saint Antoine. Nous sommes hypnotisés par le pouvoir sourd et énigmatique de ces entités venues d’un monde parallèle. Et là où Marco Benedetti sait nous jouer les tours les plus pendables, c’est qu’il ne se résout pas simplement à peindre les portraits intimes (ou supposés tels) de ses êtres fantasmagoriques. Non ! Il pousse le vice à nous en représenter seulement les statuettes, c’est à dire l’image des idoles installées sur leurs socles de bois, autrement dit l’image de l’image… de l’image ! Nous donnant ainsi à réféchir au pouvoir réel des icônes. En clair il fait, comme on disait autrefois dans les campagnes : “l’âne pour avoir du foin”. Le sarcasme n’est pas loin, sinon l’ironie et le pantomime grotesque. Venez à nous Polichinelles et consorts !

À ce propos, on ne peut s’empêcher de relire Baudelaire qui, commentant les toiles de George Catlin, le peintre des Peaux-Rouges, nous dit :

« On se souvient que Catlin faillit être mêlé à une querelle entre des chefs sauvages, ceux-ci plaisantant celui-là de s’être laissé voler la moitié de son visage. Le singe, quelquefois surpris par une magique peinture de nature, tourne derrière l’image pour en découvrir l’envers. »

C’est bien de cela qu’il s’agit. De l’envers du décor. De la face cachée de l’ange et du démon. De ces murmures de l’âme, de cette magique petite voix qui dans notre dos, comme le fameux Daemon de Socrate, nous parle, nous dicte nos actes et nous éclaire sur le chemin de la vie.

Tout le beau métier de l’artiste est alors mis à contribution pour porter l’estocade et nous fendre l’âme, nous ouvrir le regard en deux ou en mille. La touche de bleu peut bien se faire légère comme duvet flottant dans l’azur, mais les ciels sont d’une profondeur insoutenable, plus verts, plus jaunes, oranges, aussi troubles et résineux que le sperme du Destin et les lumières se liquéfient, se figent, implacables dans des embrasements terribles. Les perspectives sont aussi trompeuses que les rires du Malin, les rouges fambent, gigotent, les noirs triomphent, muets, en une myriade de teintes “philosophales” où viennent se nicher des reflets d’angoisse. Les blancs se tassent à l’affût pour mieux nous enflammer l’esprit. L’espace nous manque. Et dire qu’il est immense !

Depuis des décennies, Marco Benedetti visite la peinture à travers son histoire, sautant de branche en branche dans l’arbre généalogique de l’Art, depuis Lascaux jusqu’à David Hockney. On se souvient de sa formidable exposition à Milan en 2019 : “Antologica”, où il présentait une vue d’ensemble et très éclectique de son œuvre. Ainsi, au fl des ans, il s’est aventuré avec une aisance déconcertante dans tous les méandres, les soubresauts, les modes, les ornières, les courants et les écoles. Toujours avec curiosité mais sans jamais y perdre son identité, sa nature profonde. Il nous livre aujourd’hui une œuvre mature, puissante et totalement unique. Celui que Jean Blanchaert qualifiait à l’époque de peintre “agro-poète”, a su tout en se faisant l’humble héritier des génies tutélaires qu’il vénère, tels (en vrac et de manière non exhaustive) : Tiepolo père et fils, Ensor, Velasquez, Goya, Bacon, en passant peut-être par Agnolo Bronzino, Georges de La Tour, Giorgio De Chirico et tant d’autres, lui Marco Benedetti, le berger-troubadour des rives du Tessin, le peintre-sculpteur trace tranquillement sa propre voie avec une fraîcheur, une élégance, une détermination et une aura de divine fantaisie qui force l’émerveillement.

Alors, artiste de son temps Marco Benedetti?  À n’en pas douter, car son temps à lui, se mesure en années-lumière.

Le dæmon est un processus d’exécution “en arrière-plan” des systèmes informatiques, qui se lance automatiquement au démarrage de la machine.