NOTA DELL’ARTISTA.
Marco Benedetti
Il viaggio continua…
Così terminavo le mie note ai margini della presentazione del catalogo della mostra di Parigi.
Esponevo 7 sculture nate autonomamente ritratte poi su 7 tele, rappresentando l’individualità dell’oggetto; 7 Deamons che ho affidato a 7 scrittori per dargli un nome ed una storia, per creare e far risalire un percorso mitico.
Un musicista si è ispirato a questi esseri ed ha composto una musica che unita alle parole evocava ancor di più il MITO.
Scrivevo che le creature di terracotta potevano continuare il loro viaggio e diventare soggetti reali, vivi.
A questo punto le creature dovevano viaggiare.
Viaggiare come fecero degli oggetti mitici davvero speciali come i 4 cavalli di San Marco: da Costantinopoli a Venezia e da Venezia a Parigi.
Perché non far fare ai Deamons il percorso a ritroso che fece la famosa quadriga?
Parigi era stata visitata, ora Venezia doveva essere la seconda tappa e poi Istanbul.
Un viaggio a ritroso per i miei DAEMONS, là dove erano passati i 4 cavalli seguendo per mare le rotte e le tappe che i Veneziani fecero nel 1200.
Ora, pensati per Venezia, si aggiungono altri 2 DAEMONS, portando la schiera di questi esseri a 9.
Altri due scrittori ne delineano il MITO.
La mostra, che terrò a Parigi il 12 maggio alla galleria Celal dal titolo “ 7Daimon” con il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura, è una sorta di filo ininterrotto con quella di Milano del 2019 allo Spazio Orso.
L’ultima tela di quella mia esposizione antologica, dal titolo “BLU”, era fra tutte le opere esposte quella che più mi turbava.
Era per me un enigma.
La tela ritrae un uomo che si sporge da un dirupo allungando il braccio sinistro nell’atto di versare qualcosa, non si sa cosa perchè è senza mano. Dietro di lui, a vigilare, uno strano essere con forma di cane, cavallo, non è chiaro.
Era quella la forma che volevo indagare, nata in maniera quasi autonoma.
Una piccola scultura che avevo copiato nel quadro.
Cercando di capire, altre sette sculture vengono alla luce nei mesi successivi.
Sono loro le protagoniste di Parigi.
La verità è che cercando di modellare un corpo umano mi rendevo conto che non ci riuscivo.
Quello che nasceva dalla creta era qualcosa che non cercavo, come se la materia mi guidasse per nascere in quello stato.
Citando Cesare Pavese potrei dire che queste figure sono “qualcosa che da tempo avevo dimenticato” e che ora davanti all’evidenza del ricordo, l’io-narrante non può che dire “capisco di avere innanzi una certezza, di avere come toccato il fondo di un lago che mi attendeva, eternamente uguale”
Di fronte a questi esseri nati autonomamente, ho deciso di ritrarli, quasi che, fermandone i tratti sulla tela, potessi renderli vivi.
Josè Ortega y Gasset nel libro “Carte su Velàzquez e Goya” scrivendo su un’ opera di Velàzquez dice: “Ci sono in questo quadro tre figure, un orcio, due brocche, un bicchiere colmo d’acqua. Sono una serie di ritratti. La pittura è ritratto quando si propone di rappresentare l’individualità dell’oggetto. È un errore credere che ritratto sia soltanto la raffigurazione di un uomo, di un animale. Il ritratto, aspira a individualizzare. Fa di ogni cosa una cosa unica”
Esiste quindi un percorso possibile, un viaggio mitico.
Il mito è un ricordo sepolto nella mente dell’uomo con cui bisogna imparare a convivere e imparare a farlo salire in superficie.
Le creature di terracotta possono continuare il loro viaggio verso la nascita e diventano soggetti reali, vivi.
La pittura è un primo passo.
Il passo successivo: chiamare amici scrittori che lavorando con le parole inventano un nome ed una storia a questi oggetti scultorei, diventati nel frattempo ritratti.
Ulteriore, gradito ed insperato è l’intervento musicale che amplifica, su un altro territorio non meno mitico, questa avventura.
Il viaggio continua.
Ho dato all’esposizione il titolo “7 Daimon” perché quell’essere sul dirupo che vigila sul gesto umano mi sembra essere un Demone Socratico, una “guida divina” che assiste l’uomo in ogni sua decisione.
NOTE DE L’ARTISTE.
Marco Benedetti
L’exposition qui m’est consacrée le 12 mai à Paris à la galerie Celal, intitulée “7 Daimon”, placée sous le patronage de l’Istituto Italiano di Cultura, constitue une sorte de fil ininterrompu la reliant à celle qui s’est tenue à Milan en 2019, au Spazio Orso.
Parmi toutes les œuvres qui figurent dans cette exposition anthologique, la plus troublante pour moi était la dernière toile, intitulée “BLU”.
Elle m’apparaissait comme une énigme.
La toile représente un homme penché au-dessus d’un ravin, le bras gauche tendu, occupé à verser quelque chose – quoi ? on l’ignore, car il n’a pas de mains. Derrière lui, veillant sur lui, un personnage étrange, dont on ne sait s’il est en forme de chien ou de cheval.
C’était cette forme, née de manière quasi autonome, que je voulais questionner.
Une petite sculpture que j’avais recopiée sur ce tableau.
Dans ma quête de compréhension, sept autres sculptures ont vu le jour, les mois suivants.
Ce sont elles les protagonistes de Paris.
La vérité, c’est que, en essayant de modeler un corps humain, je me rendais compte que je n’arrivais pas à le faire.
Ce qui naissait de l’argile était une forme que je ne cherchais pas, comme si la matière me guidait pour naître dans cet état.
Je pourrais dire, en citant Cesare Pavese, que ces personnages sont “quelque chose que j’avais oublié depuis longtemps” et que désormais, face à l’évidence du souvenir, le narrateur peut juste affirmer ceci : “Je comprends que j’ai devant moi une certitude, celle d’avoir touché le fond d’un lac qui m’attendait, éternellement identique.”
Face à ces êtres nés de manière autonome, j’ai décidé de faire leur portrait comme si, en fixant leurs traits sur la toile, je pouvais les rendre vivants.
Dans son livre intitulé “Velàzquez et Goya”, José Ortega y Gasset, parlant d’une œuvre de Goya, écrit : “Il y a dans cette peinture trois objets : une jarre, deux cruches, un verre rempli d’eau. C’est une série de portraits. La peinture est portrait lorsqu’elle se propose de représenter l’individualité de l’objet. Croire que le portrait n’est que la représentation d’un homme, d’un animal, est une erreur. Le portrait aspire à individualiser. Il fait de toute chose une chose unique.”
Il existe donc un parcours possible, un voyage mythique.
Le mythe est un souvenir enseveli dans l’esprit de l’homme, avec lequel il faut apprendre à cohabiter, et à la faire remonter en surface.
Les créatures en terre cuite peuvent poursuivre leur voyage vers la naissance et devenir des sujets réels, vivants.
La peinture est une première étape.
L’étape suivante : appeler des amis écrivains qui, en travaillant avec les mots, inventent un nom et une histoire à ces objets sculptés, devenus entretemps des portraits.
Ensuite, aussi appréciée qu’inespérée, l’intervention musicale qui amplifie l’aventure en lui donnant accès à un autre territoire non moins mythique.
Le voyage continue.
J’ai intitulé cette exposition “7 Daimon” parce que cet être au-dessus du ravin, qui veille sur le geste humain, m’apparait comme un Démon Socratique, un “guide divin” qui assiste l’homme dans chacune de ses décisions.